dolore e sofferenza, le due frecce
Il destino ci può riservare momenti piacevoli che si alternano ad altri di diversa natura.
Vorrei occuparmi di questi ultimi e dell’influsso che hanno nell’orientare la vita e il giudizio che possiamo costruire attorno ad essa.
In molti momenti della vita si palesano situazioni che ci procurano dolore: la perdita di qualche amato, una ferita fisica ad esempio. E immediatamente il pensiero diverrà condizionato dalla nostra attitudine ad affrontare le difficoltà.
Così si metteranno in moto le abitudini del nostro pensare anche se ciò determina un aumento del disappunto. Come nella visione buddista il tema viene parafrasato dalla storia delle due frecce, la prima che provoca il dolore, la seconda la sofferenza. Così nel nostro pensiero di occidentali non ci accorgiamo del nostro contributo alla creazione delle gabbie, nelle quali ci immettiamo volontariamente, e con estrema difficoltà, ne troviamo la chiave per poterci liberare da esse, aprendo quella porta che è l’unica via per uscirne.
Riprendendo i nostri esempi iniziali della perdita o della ferita fisica, l’elemento sostanziale è determinato dal cambiamento della nostra vita, delle abitudini e delle sicurezze che il continuo ripetersi procura.
Tutto questo è inevitabile, non possiamo sottrarci ed eludere il suo effetto nella nostra vita; dobbiamo farce i conti con questi radicali sovvertimenti che avvengono nella nostra vita.
Ogni qualvolta il nostro sguardo coglierà la sua assenza attraverso una fotografia o i gradini della scala diventano un ostacolo insormontabile, quel dolore si farà spazio nella nostra mente/psiche.
Poi, come se ciò non fosse sufficiente, la nostra mente inizia ad inserire l’evento doloroso in una cornice, relativa alla propria esistenza, che determina un rapido sviluppo, allargamento del dolore e trasformandolo in sofferenza.
Ci si attiva per dare un significato all’evento, lo si contestualizza ricercando ragioni e colpe che lo legano in modo sicuro e duraturo a noi. Da quel momento siamo responsabili del suo effetto (la seconda freccia).
Se l’evento che ci colpisce nel suo manifestarsi ci rende passivi, la mente che va a costruire tutto questa dinamica ci riporta a riposizionarsi quindi nel ruolo centrale, che crediamo ci spetti; inizia a costruire trame e significati che vanno con l’aumentare e prolungare lo stato iniziale provocando la sofferenza.
La sofferenza si aggiunge al dolore e si propaga oltre e finisce col prendere uno spazio che ci spaventa e chiude la via del recupero. Sì, perché alla sofferenza gli si fornisce dell’energia in modo automatico che la mantiene forte e potente.
Quindi cerchiamo significati, troviamo colpe, responsabilità, cerchiamo di trovare le ragioni, diamo spazio dentro di noi alla commiserazione, predisponendoci a considerarci vittime sacrificali o candidati al premio dello iellato dell’anno.
Tutto il pensiero e le energie che esso promuove sono usati per alimentare questa giostra in cui i mostri non sono che le rappresentazioni che abbiamo di noi stessi e delle considerazioni della nostra esistenza. Il rischio è che ci si formi una struttura interiore che ci modifica in modo profondo, determinando una minore propensione all’esperienza, all’incontro con l’altro, che spinge ad una rigidità che limita il desiderare.
Si rischia di diventare quindi vittime finale dell’evento le cui conseguenze non soppesavamo, se non alla lontana, quindi molto della vita è stato trascorsa maledicendo tutta la storia che poi è la nostra vita.